Imperfetti nell'unità
30 gennaio 2021
Sacerdote dal 1841, Don Bosco cominciò subito ad occuparsi dei bambini spazzacamini, e poi dei muratorini, conoscendone le difficili condizioni di vita e di lavoro, che potevano comprometterne la crescita, traendone i primi stimoli per avviare l’esperienza dell’Oratorio. Così nacque l’incontro con Bartolomeo Garelli da cui sortì l’Oratorio, l’8 dicembre 1841. Se San Francesco (ispiratore della prima scelta religiosa di don Bosco) sposava la povertà - scegliendo di condividere la naturale condizione degli uomini del proprio tempo (e sottraendosi al destino di ricchezza che il genitore voleva per lui) - invece San Giovanni Bosco, nato e vissuto povero, optò per il contrasto aperto alla povertà (non sentita più come destino naturale dell’umanità, ma frutto perverso del peccato dell’ingordigia e di ingiustizia dei pochi verso i molti) attraverso l’istruzione, il lavoro, la dignità della condizione umana, come mostra il peso attribuito nella sua visione educativa alla formazione professionale, strumento per vincere la povertà attraverso il lavoro.
In Don Bosco, quando - negli anni della sua formazione sacerdotale - apprendeva l’arte del lavoro manuale prima in una bottega di falegname e poi presso un sarto, cresceva la convinzione che per onorare l’anima occorresse prendersi cura anche del corpo, in specie quello dei vessati dall’ingiustizia, alla ricerca di quell’equilibrio dell’esperienza umana che nel Novecento J. Maritain compendiò nella concezione dell’umanesimo integrale (Mi basta sapere che siete giovani, perché io vi ami assai, sintetizzava con spirito anticipatore Don Bosco, che raccomandava ai suoi ragazzi: In Oratorio la santità consiste nello stare allegri). Don Bosco si impegnò infatti contro uno dei pericoli più grandi di fraintendimento nel quale possa incorrere uno spirito religioso, costituito dal pensare che l’ansia di giustizia debba essere separata dalla ricerca della verità sull’uomo, giacché racchiudere la speranza nell’orizzonte della storia umana - anche quando l’azione sia generosa e generata da una forte passione per la giustizia sociale - resta sterile se non sa guardare all’Oltre, dove i progetti di società finiscono, e si realizzano cieli nuovi e terra nuova, dove abiterà la giustizia. <<Cercate il regno di Dio e la sua giustizia, ed il resto vi verrà dato in aggiunta>>, è scritto nel Vangelo di Matteo.
L’educazione – come la praticava Don Bosco - che sappia privarsi di ogni insopportabile paternalismo pedagogico, si inserisce in questo varco e sa indicare i principi riconducibili ai valori dell’ethos comune superando il gretto individualismo “tecnico” ispirato dalla sola convenienza. L’educazione che promuove lo sviluppo della persona invece non può – se non colpevolmente omettendo il suo fine – escludere pregiudizialmente quella dimensione umana essenziale che è la ricerca di senso e di relazione con gli altri. La connessione mai disgiungibile fede-vita comporta l’educazione alla Fede e al Mistero per chi voglia comprendere il Sistema preventivo di Don Bosco e nello stesso tempo il suo impegno per la pienezza dell’esperienza umana nell’attesa del Regno. Ciò comporta che preventivamente si sappia distinguere il bene dal male. Se il lavoro, che rende evidente il valore dell’operosità, pericolosamente non appare oggi più l’elemento ordinatore delle esistenze e delle esperienze - fondamentale, come storicamente è stato, per lo sviluppo civile e la “promozione umana” - viene a mancare proprio l’espressione essenziale della identificazione sociale e morale della persona. Tutte le analisi che intendono vantare un interesse per la questione giovanile raramente rilevano l’impatto che il problema del lavoro crea nell’universo - simbolico e reale – dei giovani (sempre con la cautela che non si deve considerarli una categoria sociale indistinta ed unitaria, rischiando di non comprendere le differenze sociali e le ingiustizie).
Don Bosco aveva percepito l’urgenza dello studio e dell’occupazione, e la rilevanza che il circuito educazione-operosità-valore sociale del lavoro avrebbe assunto nella società contemporanea proprio per realizzare l’eguaglianza non a parole ma concretamente. Se oggi la centralità del lavoro e la sua rilevanza sociale appaiono compromesse (e lo studio, insieme al lavoro, non appare più in onore), ne consegue che nessuna emarginazione sarà più grande di quella provocata dalla mancanza di una attività lavorativa, giacché essa resta una dimensione essenziale della vita sociale avvertita più fortemente proprio quando è assente. L’esclusione dal lavoro si rivela dunque una esclusione dalla vita associata addirittura di intere generazioni, e produce un paradosso (apparente): il lavoro svolto tende a perdere la sua consistenza qualitativa, di valore, per assumere invece nella più gran parte delle occupazioni la funzione di mero strumento per procacciarsi un reddito e nulla di più, e dunque da procurarsi a qualunque costo e senza più cercare alcun senso.
Sono state crudamente messe in luce le difficoltà crescenti di coloro che aspirano ad entrare nel mercato del lavoro con una istruzione inadeguata, e viene confermata una tendenza costante alla diminuzione percentuale sugli occupati di lavoratori in possesso di basso grado d’istruzione (e questo riguarda in misura crescente i giovani e la generazione NEET, “né studio né lavoro”). Per quante riserve si possano formulare sulla rispondenza del sistema della formazione alle esigenze mutevoli del mercato del lavoro (“che studio a fare?”), l’istruzione resta comunque indispensabile per qualificare l’accesso ad esso. Da tutte le rilevazioni più recenti e fondate emerge con evidenza il fenomeno che viene chiamato scoraggiamento nella ricerca di un accesso al lavoro. Infatti se si prendono in considerazione solo i dati relativi a categorie come le donne, i giovani meridionali, gli appartenenti a certi ceti sociali, appaiono rilevanti i significativi valori percentuali dell’effetto detto di scoraggiamento su questi soggetti.
Si deve in ogni caso tener conto inoltre del fatto che il sistema economico (con le sue esigenze) non resta mai fermo, immobile nelle sue caratteristiche, ma continuamente modifica se stesso (anche grazie alla qualità e al livello degli studi), cambiando anche il grado di occupabilità in relazione a nuove esigenze, accentuate dalle diversità territoriali. La globalizzazione ha infatti reso ancor più lacerante e drammatica questa incertezza, radicalmente incidendo sul sistema produttivo e su quello distributivo, ed aumentando le diseguaglianze. La formazione specialistica e l’acquisizione di competenze d’avanguardia resta dunque l’itinerario obbligato per dare risposta ai problemi nuovi che la questione giovanile (e particolarmente nelle regioni meridionali) presenta oggi. Di Don Bosco, dunque, c’è più bisogno che mai. Saranno ancora suscitati dalla Provvidenza, come due secoli fa accadde con un ragazzo della campagna piemontese, altri spiriti generosi che - riuscendo a spingere lo sguardo lungo oltre l’orizzonte della storia, ma profondamente immersi in essa - sappiano riprendere e sviluppare le intuizioni di Don Bosco?
prof.Giuseppe Acocella
Rettore dell’Università Giustino Fortunato